Di Massimo Introvigne
(riprodotto col permesso dell’autore)
fonte: il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 5, n. 36, 9 settembre 2006, pp. 6-7.
La parola su cui gioca con una certa malizia il multiculturalismo è «fondamentalismo». Dal momento che si ha (giustamente) paura di certe forme di fondamentalismo islamico, si afferma che chiunque pensi che è possibile comparare e giudicare i sistemi di valori, sostenendo che alcuni sono migliori di altri, cioè chiunque non sia relativista o laicista, è un pericoloso «fondamentalista».
Un esempio eloquente di questo gioco delle tre carte sulle parole lo si trova nel discorso di apertura dell’Anno accademico 2005-2006 pronunciato il 9 gennaio 2006 dal rettore dell’Università degli Studi di Torino, professor Ezio Pelizzetti: «Viviamo oggi, inutile e sciocco negarlo, in una realtà difficile per il nostro paese, per l’Europa, per il mondo, una realtà in cui i germi dell’integralismo e del fondamentalismo infettano anche ambienti che per alta formazione culturale e scientifica parevano esserne immuni. È il momento forse per riprendere con forza la via del dubbio, […] il percorso della “superiore” e antidogmatica follia di Erasmo da Rotterdam – del quale, il più celebre dei suoi Laureati, l’Università di Torino celebrerà quest’anno il 500° anniversario della Laurea. Perché la via del dubbio, quella via che qualcuno definisce oggi con disprezzo relativismo, è in realtà la vera via della cultura. La cultura è dubbio, riflessione, apertura mentale mentre ogni fondamentalismo e ogni integralismo sono negazione di cultura, chiusura mentale, disconoscimento di umanità».
La parola «dubbio» è in grassetto nell’originale e, tranne che ”ingenui, è a tutti ovvio che il bersaglio su cui punta il Rettore non è Osama bin Laden (la cui penetrazione negli ambienti europei di «alta formazione culturale e scientifica» sembrerebbe modesta, o forse confinata alla volontà di trattare con lui di un docente proprio dell’Università di Torino, il filosofo Gianni Vattimo), ma Papa Benedetto XVI, quel «qualcuno» che «oggi definisce con disprezzo relativismo» ‘ideologia multiculturalista imperante in Europa, nonché eventualmente quegli intellettuali, anche personalmente non credenti, che condividono la condanna del relativismo del Pontefice.
La malizia consiste nel ridurre gli accostamenti al rapporto fra religione e cultura – e fra religione e politica – a due: il laicismo multiculturalista (fondato, come pontifica il Rettore Pelizzetti, non sulla verità ma sul dubbio e sul relativismo) e il fondamentalismo. Ma gli accostamenti possibili non sono due: sono tre.
La crisi del Vecchio Continente
Ascoltiamo che cosa insegna davvero il regnante pontefice (come del resto i suoi predecessori) sul punto.
Nei giorni 15 e 16 ottobre 2005, a Norcia, in provincia di Perugia, organizzato dalla Fondazione Magna Carta e dalla Fondazione per la Sussidiarietà, si tiene un convegno sui rapporti fra religione e politica, fra fede e impegno civile, dal titolo Libertà e laicità. Il 14 ottobre 2005 Papa Benedetto XVI invia al presidente onorario della Fondazione Magna Carta, senatore Marcello Pera, una lettera autografa, nella quale traccia le linee-guida di un autentico nation-building per quei Paesi europei di nuova democrazia – dalla Polonia all’Ucraina e alla Georgia – che s’interrogano sui rapporti fra laicità e religione.
«Formulo […] l’auspicio – sottolinea il Papa – che la riflessione che si farà al riguardo tenga conto della dignità dell’uomo e dei suoi diritti fondamentali, che rappresentano valori previi a qualsiasi giurisdizione statale. Questi diritti fondamentali non vengono creati dal legislatore, ma sono inscritti nella natura stessa della persona umana, e sono pertanto rinviabili ultimamente al Creatore. […] Quindi, appare legittima e proficua una sana laicità dello Stato, in virtù della quale le realtà temporali si reggono secondo norme loro proprie, alle quali appartengono anche quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell’essenza stessa dell’uomo. Tra queste istanze, primaria rilevanza ha sicuramente quel “senso religioso” in cui si esprime l’apertura dell’essere umano alla Trascendenza. Anche a questa fondamentale dimensione dell’animo umano uno Stato sanamente laico dovrà logicamente riconoscere spazio nella sua legislazione. Si tratta, in realtà, di una “laicità positiva”, che garantisca a ogni cittadino il diritto di vivere la propria fede religiosa con autentica libertà anche in ambito pubblico».
La questione è di rilievo generale per la crisi dell’Europa, e merita di essere sottratta alle polemiche spicciole che purtroppo accompagnano spesso le prese di posizione dell’autorità ecclesiastica sui rapporti fra Chiesa e Stati.
Sul tema diventato nuovamente essenziale dei rapporti tra religione e cultura, si confrontano tre posizioni (non due): laicismo, fondamentalismo e laicità. Per il laicismo, tra fede e cultura ci deve essere totale separazione: una sorta di muraglia cinese che valuta negativamente ogni tentativo del credente di far diventare la sua fede cultura e di giudicare la cultura, quindi anche la politica, alla luce della fede.
All’estremo opposto, vi è la posizione per cui fede e cultura, e anche fede e politica, coincidono o dovrebbero aspirare a coincidere in una sorta di fusione – che chi non condivide questo accostamento valuterà facilmente come confusione -, per cui ogni modo di produzione della cultura che non parta esplicitamente dalla fede, ogni politica che non sia direttamente e senza mediazioni religiosa, sarà considerata di volta in volta sospetta, ovvero totalmente inaccettabile se non demoniaca.
Una lezione ragionevole
È questa la posizione del fondamentalismo, i cui sostenitori o si separano totalmente dalla società circostante vivendo in enclave o comunità che riducono al minimo il contatto con gli «altri», ovvero decidono che è assolutamente necessario reagire al carattere intollerabile della società cambiandola e diventano movimenti religiosi di tipo attivista e rivoluzionario, con possibili derive verso la violenza.
Il Papa critica la posizione fondamentalista, ricordando che una situazione in cui si riconosce che «le realtà temporali si reggono secondo norme loro proprie» di per sé «appare legittima e proficua». Per la Chiesa cattolica tra fede e cultura vi è distinzione, non separazione. Il magistero ritiene che la cultura, come la politica e tutte le realtà terrene e secolari, abbia una sua sfera di autonomia, ma che possa e debba essere giudicata dai credenti alla luce della fede e della morale.
È, quest’ultima, una posizione di «sana laicità», un termine cui Benedetto XVI dà un valore positivo e che non coincide evidentemente con il laicismo.
Il Papa denuncia sia la separazione assoluta che esclude la religione dall’«ambito pubblico», sia la confusione fra fede e politica che nega alle «realtà temporali» il diritto di essere rette «secondo norme loro proprie» che, se sono certamente radicate in «istanze etiche» che non possono non trovare nella «Trascendenza» il loro fondamento vero e ultimo, non sono però immediatamente dedotte da uno specifico credo religioso. Indicando la via media e ragionevole della distinzione e della «sana laicità», il Papa impartisce una lezione sia ai fondamentalisti religiosi sia agli adepti del nuovo fondamentalismo laicista europeo.
La “terza via”, il «modello italiano»
«Per un rinnovamento culturale e spirituale dell’Italia e del continente europeo – scrive Papa Benedetto XVI – occorrerà lavorare affinché la laicità non venga interpretata come ostilità alla religione, ma come impegno a garantire a tutti, singoli e gruppi, nel rispetto delle esigenze del bene comune, la possibilità di vivere e manifestare le proprie convinzioni religiose», secondo il ruolo che ogni religione ha nella storia e nella cultura del Paese. Queste linee-guida per un «rinnovamento culturale e spirituale» assomigliano molto a quanto gli studiosi chiamano «modello italiano», un residuo che in qualche modo si oppone al multiculturalismo altrove dominante in Europa, ma che nella stessa Italia appare ogni giorno più contestato e minacciato. Ai Paesi di nuova democrazia sono proposti oggi in tema di religioni il modello statunitense – tutte le fedi sullo stesso piano, ugualmente favorite – e quello francese, dove la religione è un’attività privata da guardare con sospetto e ostacolare quando e come è possibile. Molte di queste nazioni hanno una religione maggioritaria che è intrinseca alla tradizione e alla storia nazionale.
Per esempio, un Paese come la Georgia non assomiglia né alla Francia – dove la pratica religiosa in generale è inferiore al 10% -, né agli USA dove un’alta pratica religiosa si distribuisce fra centinaia di denominazioni diverse. In Georgia oltre l’80% dei cittadini è ortodosso e la pratica è intorno al 60; pensare la nazione georgiana senza riferimento storico alla Chiesa Ortodossa sarebbe assurdo. Lo stesso vale per la Chiesa cattolica in Polonia, in Lituania, in Croazia: e anche in Italia. In questi Paesi la maggioranza dei cittadini chiede un riconoscimento per la religione che ha forgiato l’identità nazionale: non accetterebbe né che sia vessata da una continua oppressione amministrativa come in Francia, né che sia messa in tutto e per tutto sullo stesso piano di religioni ampiamente minoritarie o da poco importate nel Paese come avviene negli Stati Uniti d’America.
L’Italia offre il proprio modello di riconoscimento plurimo delle religioni – con un Concordato che riconosce il ruolo storico unico della Chiesa Cattolica, intese che accolgono all’interno di rapporti con lo Stato altre religioni presenti in modo significativo nel Paese, e ‘ampia libertà religiosa anche per i gruppi senza intese – come via media fra gli opposti modelli statunitense e francese. Il principio su cui si basa il modello italiano è che i diritti delle minoranze possono essere garantiti con il consenso generale solo quando sono chiaramente affermati i diritti della maggioranza.
Solo una finzione giuridica permetterebbe di dire che la Chiesa cattolica in Italia è una religione uguale alle seicento altre presenti nel nostro Paese. E lo stesso vale per l’islam in Marocco o per l’Ortodossia in Russia o in Georgia. Ci sono Paesi dove la religione ha fatto la nazione e non riconoscerlo è più che un errore: è una sciocchezza.
Il «modello italiano» (per questo oggi contestato) garantisce ampia libertà alle minoranze, ma insieme, con la costituzionalizzazione del Concordato, riconosce che la maggioranza ha i propri diritti e che c’è una religione così legata a filo triplo alla storia nazionale da essere nei fatti più uguale delle altre.
Minoranze: va bene, però…
La tesi non vale solo per la religione. Vale dovunque vi sia una dialettica fra maggioranze e minoranze, e dove la retorica che prende in considerazione solo e sempre i diritti delle minoranze innervosisce le maggioranze, con conseguenze ultimamente negative per le stesse minoranze. Vale per l’immigrazione: se si parla solo dei diritti degl’immigrati, e non anche di quelli degli europei che tali immigrati ospitano, si determinano le reazioni che vediamo un po’ in tutta Europa. Vale per gli omosessuali: l’insistenza quasi maniacale sui loro diritti fa dimenticare che anche la famiglia e chi non è omosessuale hanno dei diritti, il cui mancato rispetto spinge pure la persona più tollerante a diventare, come oggi si dice (ma abbiamo visto le ambiguità che circondano questo termine), «omofoba». Vale per quei lavoratori francesi che, avendo sentito sempre e solo parlare dei diritti (che non sono immaginari, e certo meritano una loro tutela) del troppo famoso «idraulico polacco» immigrato, e mai del loro, hanno reagito nel modo che si sa sull’Europa, bocciando nel 2005 con referendum il progetto di Costituzione. Vale per le persone per bene italiane turbate dai giudici che mandano assolti terroristi notori in nome del diritto al garantismo di una minoranza extracomunitaria e politicamente estremista che rischierebbe di essere discriminata, mentre del diritto della maggioranza di stare tranquilla e non rischiare le bombe degli ultrafondamentalisti islamici si tiene talora assai meno conto. E così via.
Nel misconoscimento dei diritti della maggioranza c’è tutta la crisi dell’Europa, ci sono il voto contrario francese e olandese nei referendum sulla Costituzione europea, c’è la disaffezione degli europei alla politica e ai politici, di Destra e di Sinistra. Quanto alla laicità, il modello presentato dal Papa è molto più avanzato – e garantisce maggiore pace religiosa – del polveroso laicismo di José Luis Rodriguez Zapatero e dei suoi ammiratori italiani.
Nella Lettera alla Fondazione Magna Carta così come nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2006, il Papa svela senza reticenze la menzogna fondamentale del nostro tempo. Non solo il nichilismo laicista e multiculturalista e il fondamentalismo non sono le uniche alternative disponibili per l’uomo europeo moderno: al contrario, essi sono due volti dello stesso stravolgimento della verità e portano alle stesse tragiche conseguenze.
Al ricatto secondo cui chi non è laicista è fondamentalista, e siccome il fondamentalismo «mette le bombe» è obbligatorio essere laicisti, finiscono per soggiacere peraltro anche cattolici e uomini di Chiesa, che da anni hanno ritenuto doveroso abbracciare una nozione di modernità di cui laicismo, relativismo e culturalismo sono componenti costitutive. Questa complessa storia si può raccontare in molti modi, ma un eccellente punto di partenza è la lettura di La mia vita. Autobiografia di Joseph Ratzinger.
Il Papa, il più all’avanguardia
L’edizione italiana traduce dal tedesco, con qualche aggiornamento, un libro di memorie del Pontefice che arriva fino all’anno 1977 e alla sua nomina ad Arcivescovo di Monaco di Baviera e Frisinga. Non vi si troveranno quindi curiosità o rivelazioni sul suo periodo romano, né sul servizio arciepiscopale svolto a Monaco. L’opera tuttavia è preziosa per i particolari che fornisce non solo sulla vita dell’attuale Pontefice, ma sulla storia della teologia cattolica europea nel XX secolo.
Il testo consta di tre nuclei tematici principali. Il primo ripercorre la giovinezza del futuro Pontefice, dalla nascita il 16 aprile 1927 nel villaggio bavarese di Marktl sull’Inn all’ordinazione sacerdotale del 1951. Benché il giovane Joseph Ratzinger, figlio di un gendarme, si sposti da un villaggio all’altro seguendo i mutamenti di carriera del padre, egli considera come il suo «vero paese d’origine» Traunstein, dove trascorre gli anni più significativi dell’infanzia e della giovinezza.
Il quadro che ne dà non costituisce una semplice curiosità: la robusta e solida cristianità rurale bavarese, sordamente ostile nei confronti del nazional-socialismo (memorabile l’episodio del maestro di scuola nazista neopagano, le cui iniziative naufragano nel ridicolo), articola la sua vita intorno alla liturgia, con un clero che si apre cautamente al nuovo movimento liturgico, di cui nota però anche le potenziali deviazioni, che – come scrive l’autore – produrranno i loro guai nella Chiesa solo molti anni dopo.
«L’inesauribile realtà della liturgia cattolica – ricorda Ratzinger – mi ha accompagnato attraverso tutte le fasi della mia vita: per questo, non posso non parlarne continuamente». L’idillio bavarese è però ben presto spezzato dal nazismo, dalla guerra, dall’obbligo di prestare servizio militare imposto anche a chi come il giovane Joseph ha deciso di entrare in seminario, e infine dall’internamento come prigioniero di guerra all’arrivo delle truppe statunitensi. Ma tutto questo è superato e, sia pure in condizioni materiali difficilissime, Joseph può proseguire gli studi di teologia fino all’ordinazione sacerdotale.
Quel Concilio conteso
Il secondo nucleo tematico, quello per molti versi centrale al volume, ricorda lo sviluppo del pensiero teologico ratzingeriano e le amicizie – alcune delle quali divenute, se non inimicizie, aspri contrasti dottrinali – con le maggiori figure del mondo teologico tedesco del secolo XX. Si va da Michael Schmaus (1897-1993), uno dei suoi maestri e il protagonista di quello che l’autore definisce un vero e proprio «dramma» – preoccupato dal carattere che considera eccessivamente innovativo delle idee storico-teologiche dell’allievo, con cui si riconcilierà solo molti anni dopo, Schmaus cerca di stroncarne nel 1956 la carriera universitaria – fino a Karl Rahner (1904-1984) e ad Hans Küng.
Proprio la controversia con Schmaus a proposito della tesi di abilitazione del giovane teologo su san Bonaventura (1218?-1274) è al cuore della ricostruzione che l’autore propone del proprio itinerario teologico, da cui emerge un’immagine che non si lascia ridurre a quella giornalistica, piuttosto semplificante, dell’ex progressista che diventa «pentito» solo dopo avere constatato i guasti del post-Concilio.
In realtà, tutto si gioca fin dall’inizio sul concetto di rivelazione. Nella tesi del 1956 il giovane Ratzinger sostiene che per san Bonaventura (ma è una posizione che il teologo fa sua) i concetti di «rivelazione» e di «Sacra Scrittura» non coincidono.
La «rivelazione» al contrario «è sempre un concetto di azione»: il termine definisce «l’atto con cui Dio si mostra, non il risultato oggettivizzato di questo atto». Dunque «del concetto di “rivelazione” è sempre parte anche il soggetto ricevente: dove nessuno percepisce la rivelazione, lì non è avvenuta nessuna rivelazione».
La lobby progressista
Non è esagerato dire che questa è l’affermazione centrale di tutto il testo. Precisamente su questo tema si determina durante il Concilio Ecumenico Vaticano II il contrasto fra il perito Joseph Ratzinger e i seguaci della «presunta scoperta» del gesuita Josef Rupert Geiselmann (1890-1980) – oggetto, secondo il testo, di una «grossolana volgarizzazione nell’eccitato clima conciliare» – secondo cui lo stesso Concilio di Trento avrebbe voluto insegnare che la Sacra Scrittura ha una sua «completezza materiale» e contiene l’intero deposito della fede.
Seguendo a fondo la tesi di Geiselmann si sarebbe arrivati a una svalutazione della Tradizione, all’idea che la Chiesa non potesse «insegnare nulla che non fosse esplicitamente rintracciabile nella Sacra Scrittura», cioè – «dal momento che interpretazione della Scrittura ed esegesi storico-critica venivano identificate» – nulla che non fosse certificato dagli esegeti e dai teologi, che venivano così a sostituirsi ai vescovi.
Il rifiuto di questa deriva, giudicata pericolosissima, finisce per separare Ratzinger dai principali «progressisti»; ma nello stesso tempo l’argomento per rifiutarla – che è sempre quello secondo cui «la Scrittura è la testimonianza essenziale della rivelazione, ma la rivelazione è qualcosa di più vivo, di più grande» – è giudicato troppo agostiniano e bonaventuriano (e troppo poco tomistico, o neoscolastico) dai “conservatori”, così che la posizione del teologo tedesco rimane per qualche verso isolata.
È evidente come questa distinzione fra Scrittura e rivelazione, e questa nozione di rivelazione, hanno un significato cruciale anche per la definizione della specificità del cattolicesimo e delle sue differenze, per esempio, con il protestantesimo e con l’islam, cui pure il testo fa brevemente cenno.
Il terzo nucleo tematico del volume mostra come coloro che avevano sostenuto in tema di Sacra Scrittura e di ruolo rispettivo dei teologi e dei vescovi al Concilio la tesi giudicata da Ratzinger eversiva si organizzano in una vera e propria lobby, concepiscono la Commissione teologica internazionale (di cui lo stesso Ratzinger fa parte) come un’istanza alternativa e superiore alle congregazioni romane, cercano di scardinare la teologia a partire dalla liturgia, e con diverse strategie operano per rovesciare la nozione di Chiesa guidata dai vescovi in una di Chiesa guidata dai teologi che – come, ricorda l’autore, aveva già suggerito Martin Lutero (1483-1546) – in quanto «esperti di Sacra Scrittura sono coloro che veramente possono prendere delle decisioni».
Il “popolo”
Ma il processo sovversivo, una volta avviato, non si ferma qui: se la Chiesa non è guidata dai pastori, ma da chi interpreta la Sacra Scrittura, come pretendere che questa interpretazione sia riservata a una casta di professori? In un clima segnato dal marxismo comincia a emergere «l’idea di una sovranità ecclesiale popolare, in cui il popolo stesso stabilisce quello che vuole intendere con il termine Chiesa».
Beninteso, le carte sono truccate, perché “il popolo” è una metafora per una nuova generazione di teologi progressisti – “della liberazione” – che aspira a scalzare la generazione precedente. Ma la direzione in cui ci si muove è comunque quella di una rivoluzione che sovverte le basi stesse della Chiesa e della fede. Si spiega così la ferma reazione di Ratzinger, che rompe con molti amici e colleghi con cui pure aveva condiviso la critica di una teologia neoscolastica ritenuta troppo angusta e difensiva, e poco adatta alla proiezione nuovamente missionaria della Chiesa per la riconquista di un mondo scristianizzato in cui l’autore vede il vero appello del Concilio. Certamente le intenzioni maliziose della lobby progressista e il suo sfruttamento di una «propaganda conciliare» che abusa del nome del Concilio Ecumenico Vaticano II contro i documenti della stessa assise si rivelano nella loro tragica chiarezza solo progressivamente. Peraltro, l’opera suggerisce che il percorso intellettuale del teologo Ratzinger non procede per scossoni, “svolte” o “pentimenti”, ma è già chiaro alla fine degli anni 1950.
La nozione di Rivelazione come «azione» – lontana sia da un certo conservatorismo, sia dal progressismo cripto-protestante – ne costituisce il centro ideale e ispirerà in futuro una pastorale che concepisce la Chiesa come né conservatrice né progressista, ma missionaria.
Le idee stupide
In un fondamentale Discorso ai Membri della Curia e della Prelatura Romana per la presentazione degli auguri natalizi, del 22 dicembre 2005, Benedetto XVI ha ricondotto i problemi della recezione del Concilio al «fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l'”ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili.
Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio a ogni estrosità. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale». In termini meno diplomatici – e certo meno appropriati a un discorso pontificio – l’allora cardinale Joseph Ratzinger, conversando con giornalisti, aveva a suo tempo definito l’«ermeneutica della discontinuità» come «un’idea stupida». E – sempre a un amico giornalista – il futuro Benedetto XVI aveva confidato che un principio che lo aveva sempre guidato, e che pensava gli fosse spesso tornato utile, era quello secondo cui «un’idea cattolica non può essere stupida, e un’idea stupida non può essere cattolica».
Nella prospettiva che qui ci occupa, è importante dunque comprendere che l’«ermeneutica della discontinuità» si è risolta in un cedimento al laicismo.
Il dialogo aperto con l’età moderna è diventato resa di fronte al ricatto “modernista” e multiculturalista secondo cui o si accetta il relativismo e si rinuncia a dare giudizi sui sistemi di valori e sulle civiltà che ne derivano, considerandole tutte sullo stesso piano, oppure si è “fondamentalisti”, una parola che nella lettura del Concilio Ecumenico Vaticano II data in Italia – ma con risonanza europea – soprattutto dalla cosiddetta “scuola di Bologna” (tra l’altro, la matrice culturale e politica da cui emerge Romano Prodi) trova un sinonimo, usato non di rado a scopo discriminatorio e quasi terroristico: “preconciliare”.
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